Nel XXVII canto dell’Inferno, Dante incontra Guido da Montefeltro, un personaggio storico molto conosciuto all’epoca di Dante, la cui vicenda (a tratti considerata, oggi, storicamente infondata) diventa il pretesto per Dante, e per noi, per riflettere sulla realtà del peccato e della colpa.
Guido, secondo alcune voci diffuse all’epoca, avrebbe suggerito a Bonifacio VIII il modo per sconfiggere la città di Palestrina, dietro una promessa che il papa gli avrebbe fatto: la certezza del perdono. Cosa racconta Dante? Che Bonifacio fa chiamare Guido, chiedendogli di aiutarlo nella sua missione di guerra. Guido, spaventato e certo che si tratta di un’azione sbagliata, non vuol rispondere, ma il Pontefice lo rassicura: “Non avere timore, io fin da adesso ti assolvo”.
E così, Guido, si tranquillizza, dal momento che si sente purificato da quel peccato che sta per compiere, e offre i suoi consigli. Racconta poi Dante che, al termine della sua vita, l’anima di Guido viene presa da un diavolo, che lo rimprovera dicendo:
…ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente.
(vv. 118-120)…perché non si può assolvere chi non si pente,
e non si può pentirsi e volere nello stesso tempo,
per la contraddizione che non lo permette.
Se ha agito dietro la garanzia del perdono della Chiesa, perché Guido viene considerato colpevole? Perché l’assoluzione è strettamente legata al pentimento. Guido non può pentirsi di qualcosa ma nello stesso tempo farla, mettendo a tacere la sua coscienza. Ci si può pentire dopo, oppure, essendo pentito veramente, evitare di compierla.
L’articolo del Catechismo che parla del peccato è inserito nel capitolo che tratta della dignità della persona umana. Già questo ci pone a comprendere come faccia parte della dignità propria dell’uomo la capacità di comprendere le proprie colpe, di migliorarsi, di fare affidamento alla misericordia del Padre, di progredire verso la perfezione.
Il tema del peccato, il nostro rapporto con esso, la capacità di pentirsi e di agire di conseguenza, non è secondario nella nostra vita. Tutti noi abbiamo a che fare con le nostre debolezze, con le nostre mancanze, con i nostri errori e i conseguenti sensi di colpa. Quello del peccato non è un tema secondario neanche nella nostra fede: il Vangelo altro non è che la rivelazione della misericordia di Dio verso i peccatori (CCC, 1846).
Una misericordia che Dio offre a tutti, ma che esige il riconoscimento delle nostre colpe (CCC, 1847). La grazia, per agire in noi, ha bisogno di svelare il nostro peccato: solo in questo modo il nostro cuore può convertirsi.
Quando la Chiesa parla di peccato, quindi, non ha in mente un elenco legalista di cose da fare o non fare. Non si tratta di seguire delle regole: si tratta di convertire il cuore, di volgerlo al Padre, di sperimentare tutta la durezza del pentimento che deriva dai nostri peccati, di scegliere volontariamente il bene. Perché è in quello spazio, aperto dal nostro pentimento, che può far breccia la misericordia di Dio.
La varietà dei peccati è grande, possono essere distinti secondo il loro oggetto, oppure secondo le virtù alle quali si oppongono, oppure secondo i comandamenti che infrangono, o secondo la loro gravità. (CCC, 1852 e seguenti).
La Chiesa ritiene fondamentale distinguere i peccati in base alla loro gravità, distinguendo tra peccato mortale e peccato veniale.
Il peccato mortale è una violazione grave della legge di Dio, che avviene quando:
- la materia è grave (si tratta cioè di una mancanza che infrange i comandamenti e che va contro all’amore di Dio o del prossimo)
- viene commesso con piena consapevolezza (cioè si è consapevoli che ciò che si compie è un atto peccaminoso. Si tratta della consapevolezza cioè che non mancava a Guido da Montefeltro)
- avviene con deliberato consenso (si tratta cioè di una scelta personale).
La conseguenza del peccato mortale è di distruggere la carità nel cuore dell’uomo e di privarlo dello stato di grazia. Per questo richiede una nuova iniziativa della misericordia di Dio e una conversione nel cuore, che avvengono nel sacramento della Riconciliazione. Se pentimento e riconciliazione non avvengono, la conseguenza di questo peccato è l’esclusione dal Regno di Cristo.
Il peccato veniale avviene quando si tratta di materia leggera. Cioè riguarda atti che hanno in sè un disordine, ma non vanno contro l’amore di Dio o del prossimo. Oppure si parla di peccato veniale quando, pur essendo di fronte a una mancanza grave, viene a mancare la piena consapevolezza o il totale consenso.
Le conseguenze del peccato veniale sono l’indebolimento della carità e l’ostacolo ai progressi delle virtù. Inoltre, un peccato veniale che rimane senza pentimento, ci dispone poco a poco a commettere il peccato mortale: il peccato trascina al peccato (CCC, 1865). Per questo, anche se il peccato veniale non rompe l’Alleanza con Dio e ci merita solo pene temporali, è importante lasciare spazio alla misericordia di Dio di agire, attraverso il nostro sincero pentimento, perché possiamo volgere la nostra libertà a Lui, sommo bene.
Avete letto il commento agli articoli 1846-1876 del Catechismo della Chiesa Cattolica.